Wikipedia e Youtube sono tra i siti siti più visitati del mondo. La classifica Alexa sui siti più visitati in Italia e nel Mondo evidenzia quanto sia rilevante la loro presenza ed il loro utilizzo con numeri da capogiro.
Numeri che nessuna azienda potrebbe mai lontanamente sognare di poter realizzare con i propri dipendenti e che oggi sono possibili grazie a uno dei fenomeni digitali più interessanti del XXI secolo: la peer production o produzione ad opera di un gruppo di pari.
Che cos’è la peer production e perché si è diffusa?
Allora, perchè decidiamo di lavorare gratis? Perchè dedichiamo il nostro tempo libero alle reti sociali senza ottenere alcuna ricompensa finanziaria?
I profondi cambiamenti della tecnologia e dello sviluppo demografico stanno creando una crescente accessibilità alle tecnologie informatiche, basti pensare alla diffusione dei servizi di cloud computing ed ai social software. La possibilità di utilizzare hardware e software direttamente sulla ‘nuvola’ sta consentendo infatti a un numero enorme di persone di utilizzare strumenti agili e veloci per collaborare, condividere, competere e, soprattutto, per creare digital commons ossia contenuti digitali prodotti direttamente dagli utenti e caricati in Rete.
Attraverso infrastrutture a basso costo (telefonia gratuita via internet o software open source) migliaia e migliaia di individui hanno iniziato così a sfruttare le ‘nuove armi di collaborazione di massa’ (come sono state definite da Don Tapscott nel suo libro ormai celeberrimo Wikinomics 2.0) e soprattutto a dar vita a innovative forme collaborative e a modelli di business inimmaginabili. Forme collaborative in grado di collegare milioni di utenti, “orizzontalmente” impegnati in un un medesimo obiettivo: contribuire in prima persona.
L’esempio più famoso e conosciuto di questo fenomeno collaborativo e definito peer production (produzione ad opera dei pari) è sicuramente Wikipedia. Collaborando in modalità “cloud” (utilizzando ci0è un servizio – la piattaforma Wikipedia – distribuito e virtualizzato in rete) e utilizzando modalità open source, centinaia di migliaia di volontari hanno messo a disposizione le proprie conoscenze e competenze per creare nuove voci e contenuti e per produrre l’enciclopedia libera e online più grande del mondo.
Questo processo di connessione e partecipazione è stato definito per la prima volta con il termine produzione sociale (o produzione orizzontale basata su beni collettivi) dal professore di Harvard, Yokai Benkler.
Nel suo libro, infatti, del 2006 Benkler usò i casi di studio di google, la condivisione di file P2P e il progetto Wikipedia per descrivere questa nuova forma di produzione sociale di informazioni, beni e servizi. Una produzione sociale dalla caratteristiche peculiari, secondo l’autore, ossia basata interamente su comunità paritarie ed autonome di volontari che si aggregano per raggiungere un risultato condiviso utilizzando forme di collaborazione non basate sulla tradizionale organizzazione gerarchica e non veicolate da compensazioni finanziarie.
Ma se è vero che le nuove tecnologie hanno posto le basi e le opportunità tecniche per l’emergere di questi nuovi comportamenti partecipativi e cooperativi, il mezzo tecnologico non può essere l’unica e semplice causa che spinge migliaia di persone a caricare video su You Tube o a correggere una voce su Wikipedia senza ottenere nessuna retribuzione economica.
Le motivazioni psicologiche alla base della peer production. Clay Shirky nel suo libro Surplus Cognitivo afferma <il problema non riguarda i comportamenti, ma la spiegazione. Una volta che si smetta di chiedersi perché la gente faccia queste cose “gratis” e si cominci a chiedersi perché lo facciano, l’intera gamma di motivazioni intrinseche (e non finanziarie) entra a far parte della spiegazione>. Gli individui, secondo lo scrittore statunitense, sarebbero mossi da un insieme di ragioni personali – motivazioni intrinseche – collegabili al valore intrinseco dell’attività stessa ossia alla ricompensa che un’attività è in sé e per sé, piuttosto che alla ricompensa o ai benefici economici che questa attività può generare.Le motivazioni intrinseche per cui le persone decidono di partecipare a progetti collaborativi non retribuiti sono, effettivamente, molteplici:
– Competere in una sfida e dimostrare di essere competenti e bravi in un campo specifico (per esempio la community di Mozilla Firefox).
– Desiderio di autonomia ossia di determinare quel che facciamo e come lo facciamo. Creare qualcosa di personale determina una soddisfazione superiore rispetto al consumare qualcosa che viene creato da qualcun altro.
– Desiderio di agire per qualcosa di più grande di sé, lavorare per una vita migliore o sostenere una causa.
– Divertirsi, intrattenere e soddisfare il desiderio narcisistico di apparire sono le motivazioni che possono spingere gli utenti a caricare video, tutorial o altro (come avviene su YouTube).
– Liberare la creatività, apprendere nuove informazioni e risolvere problemi. (Un esempio è la community open source di Linux impegnata nella risoluzione continua di problematiche legate alla programmazione).
– Incontrare persone con interessi simili e soddisfare la curiosità. (Un esempio in questa direzione è rappresentato dalle community incentrate su argomenti specifici come, ad esempio, il social network Anobii destinato ai libri )
Le persone tendono, infatti, ad apprezzare maggiormente l’esclusività e la libertà piuttosto che gli incentivi strettamente monetari ed è per questo che, in contrasto con quanto si pensi, il valore dell’appartenenza, della condivisione e della generosità hanno un ruolo “motivante” molto più elevato dei benefici economici.
Uno esperimento ormai celeberrimo svolto da Edward Deci E. (1971) ha dimostrato, addirittura, che se offriamo un rinforzo esterno ossia paghiamo, per esempio, delle persone per svolgere un’attività che viene svolta in precedenza solo per motivazioni intrinseche (per esempio, il semplice gusto di scrivere un articolo su un blog), le persone tendono a “monetizzare” tale attività e, di conseguenza, a ridurre l’impegno se non retribuite sufficientemente.
Si comprende, così, quali siano le profonde motivazioni psicologiche che consentono di dare vita alle forme di partecipazione collettive che caratterizzano la nostra epoca e che spingono migliaia e migliaia di persone a straordinari atti di creatività e generosità in Rete. A questo punto, però, una domanda viene spontanea:
Come potremmo “esportare” le forti motivazioni psicologiche alla base della peer production sulle piattaforme di Wikipedia e di YouTube per promuovere invece l’attività lavorativa di tutti i giorni?
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